L’acqua “nascosta” delle aree montane che rischiamo di perdere

L’acqua “nascosta” delle aree montane che rischiamo di perdere

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L’acqua “nascosta” delle aree montane che rischiamo di perdere
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02 febbraio 2024

Nelle aree montane è presente anche un’acqua “nascosta”, che noi non vediamo, ma c’è; purtroppo, però, le montagne si stanno scaldando più velocemente della media del Pianeta e rischiamo di perdere anche quell’acqua preziosa. Ne abbiamo parlato con Michele Freppaz, nivologo ed esperto di suoli d'alta quota.
Tra montagne e acqua intercorre un legame strettissimo.

Le terre alte, grazie alla presenza dei ghiacciai, sono considerate delle vere e proprie torri d’acqua, che rendono la risorsa idrica un elemento disponibile sia per gli ecosistemi sia per le popolazioni umane e le loro attività. I cambiamenti climatici e l’aumento delle temperature globali stanno però comportando il drastico ritiro dei ghiacciai e repentine trasformazioni degli ecosistemi montani.

Ne abbiamo parlato con Michele Freppaz, nivologo ed esperto di suoli d‘alta quota, e professore ordinario presso l’Università di Torino - DISAFA, dove, dal 2023, è Presidente del Corso di Laurea in Scienze e Tecnologie per la Montagna. Negli anni ha partecipato a progetti di ricerca non solo sulle Alpi ma anche nelle Montagne Rocciose, Ande e Himalaya, dove ha studiato in modo particolare l’impatto del ritiro dei ghiacciai e della riduzione dell’innevamento sulle proprietà del suolo e dell’acqua.

Quali sono i servizi ecosistemici legati all’acqua che le aree montane ci assicurano?

Uno degli elementi caratterizzanti delle aree montane è la grande abbondanza di acqua, che si manifesta sotto forma sia di precipitazioni liquide che nevose. L’acqua che si accumula alle alte quote sotto forma di neve e ghiaccio va da alimentare le sorgenti e i fiumi, creando una connessione con le aree di pianura e venendo utilizzata anche a fini idro-potabili. Pensiamo ad esempio a un territorio come il Nord-Ovest italiano, tra la Lombardia e il Piemonte, dove la forte vocazione alla risicoltura è possibile anche grazie al contributo dell'acqua che scende dai versanti delle montagne e alimenta le falde sotterranee. Oltre a essere quantitativamente importante, l’acqua stoccata sotto forma di neve alle quote più alte diventa una riserva strategica: immagazzinata durante l'inverno, viene gradualmente rilasciata nel periodo primaverile ed estivo quando la necessità della risorsa idrica è maggiore. Ed inoltre, proprio per le caratteristiche di quota e di pendenza, le aree montane sono ambienti caratterizzati da una grande energia, fattori che vengono utilizzati anche per la produzione di energia idroelettrica.

L’acqua è quindi una risorsa strategica, sotto quali altre forme è presente sulle montagne?

Nelle aree montane è presente anche un’acqua “nascosta”, che noi non vediamo, ma c’è.

Il permafrost, ad esempio, è uno strato di terra o roccia permanentemente ghiacciato che rimane costantemente a una temperatura inferiore a 0°C per almeno due anni consecutivi. Sulle Alpi questi strati si trovano tipicamente sopra i 2.500 metri di quota. La presenza di permafrost è una risorsa strategica anch'essa, che influisce sulla quantità e qualità delle acque di sorgenti e ruscelli e sulla stabilità dei versanti. Ma oltre al permafrost c’è anche tutta quell'acqua trattenuta dai suoli. Un suolo sano è infatti costituito per circa il 25% del suo volume da acqua. Soprattutto negli ultimi anni – in cui ci sono stati episodi di siccità importante – si è capito che un sistema per conservare l'acqua è proprio quello di avere dei suoli sani, non impermeabilizzati, né contaminati. Così in montagna, dove l’antropizzazione è minore, molta acqua è stoccata anche nei suoli.

Quale impatto stanno avendo i cambiamenti climatici sulle aree montane?

Le montagne si stanno scaldando più velocemente della media del Pianeta. L’IPCC ha osservato che le temperature alle alte quote stanno aumentando di 0,3°C ogni decennio, mentre nel resto del Pianeta di 0,2°C.

Ci si può chiedere: perché le montagne si scaldano di più? Può sembrare contro intuitivo, ma è un fattore legato alla presenza di neve e ghiaccio. Questi due elementi hanno un'elevata albedo, per cui riflettono larga parte della radiazione solare, preservandosi dalla fusione.

Con l’aumento delle temperature, il ghiaccio fonde a un ritmo più elevato, si ricopre più facilmente dei detriti che cadono dai versanti e questo riduce l'effetto albedo, avviando un fenomeno di feedback positivo che rinforza sé stesso e fa sì che le montagne subiscano di più l’effetto del riscaldamento globale.

I ghiacciai non sono quindi in equilibrio con le condizioni climatiche e stanno inesorabilmente arretrando: dagli anni Ottanta a oggi in Italia abbiamo perso il 40% della loro superficie e si prevede che al 2060 fino all'80% della superficie dei ghiacciai italiani alpini sarà scomparsa.

Questo comporta una minore capacità delle montagne di stoccare acqua e aggrava anche il rischio di siccità durante il periodo estivo, il momento in cui la fusione della neve e dei ghiacci dovrebbe sopperire alle minori piogge.

Inoltre il riscaldamento globale ha come conseguenza anche l’innalzamento del limite delle nevicate: pensando al versante sud delle Alpi, nelle aree intorno ai 1.500/1.800 metri di quota, si hanno sempre più spesso precipitazioni piovose invece che nevose, o comunque un accorciamento della durata della copertura nevosa.

La neve è però uno straordinario elemento regolatore: una sua alterazione ha ricadute pesanti sul funzionamento degli ecosistemi.

Un suolo coperto dal manto nevoso, per esempio, non gela durante l'inverno e permette una certa vitalità di microrganismi, di piante e radici. Nel momento in cui questo non è presente si vengono a creare dei fenomeni di congelamento del suolo che possono alterare il ciclo degli elementi nutritivi. Ed infine anche il permafrost – quel suolo permanentemente ghiacciato – si sta degradando e fondendo a causa del riscaldamento globale. Questo comporta una maggiore instabilità dei versanti e il rischio che si verifichino frane e crolli.

Come si possono monitorare i cambiamenti degli ecosistemi montani di fronte al drastico aumento delle temperature?

Tra le iniziative più importanti a livello internazionale c’è la Rete LTER, per il coordinamento e la promozione della ricerca ecologica a lungo termine. La rete ha l’obiettivo di promuovere e sostenere l’acquisizione di dati e informazioni relativi alle tendenze evolutive dei processi ecologici e di sostenere l’elaborazione di strategie di gestione sostenibile degli ecosistemi. Esistono poi progetti specifici, come ad esempio il progetto GLORIA (Global Observation Research Initiative in Alpine Environments), che hanno proprio la finalità di monitorare gli effetti dei cambiamenti climatici sulla vegetazione e i suoli di alta montagna. In alcune zone sommitali delle Alpi e degli Appennini sono stati posizionati dei sensori e data logger, che permettono di misurare la temperatura del suolo e correlarla con le variazioni della vegetazione. Si è potuto constatare che l’aumento delle temperature produce effetti molto importanti sui cicli del carbonio e azoto, sulla disponibilità di elementi nutritivi e quindi sulla vita di organismi e piante.

Si sta assistendo, come diretta conseguenza, a un declino di specie criofile e alla migrazione di specie termofile verso quote superiori.

Quali misure possono essere implementate per far sì che i territori montani si adattino maggiormente di fronte alle conseguenze dei cambiamenti climatici?

Io penso che siano due le principali pratiche che possiamo mettere in atto di fronte ai cambiamenti climatici: le soluzioni e le tecnologie basate sulla natura, le cosiddette nature based solutions, insieme alla valorizzazione e riscoperta dei saperi legati alla tradizione. Il ripristino di usi tradizionali del suolo, ad esempio la valorizzazione e manutenzione dei muri a secco per garantire la stabilità dei versanti, una corretta gestione forestale, una fruizione sostenibile del territorio, sono elementi essenziali. In passato vi era una manutenzione ordinaria del territorio molto attenta, che si traduceva in una cura capillare delle aree montane.

E proprio una gestione più accorta, che impari anche dal passato, può contribuire a rendere meno vulnerabili le terre alte, anche di fronte agli eventi estremi e ai cambiamenti climatici.

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