FAI ponte tra culture. La storia e la testimonianza di Mamadou

FAI ponte tra culture. La storia e la testimonianza di Mamadou

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FAI ponte tra culture. La storia e la testimonianza di Mamadou
Dal territorio

26 agosto 2021

Il progetto «FAI ponte tra culture» apre alle persone di origine straniera che vivono in Italia uno spazio di rielaborazione sul proprio processo identitario e favorisce la decostruzione di stereotipi culturali.

La storia di Mamadou: l’arte per sentirsi a casa

Mamadou ha venticinque anni, proviene dalla Guinea e ha conosciuto il progetto del FAI mentre era ospite in un centro di accoglienza come richiedente asilo. Vive in Italia da tre anni, lavora in modo stabile nell’ufficio merchandising della Croce Rossa, dove si occupa della gestione ordini, svolge volontariato con il FAI, collabora con i Global Shapers ed è volontario anche nella Croce Rossa Italiana.

Come ha conosciuto il progetto del FAI

Per Mamadou l’incontro col mondo del volontariato è avvenuto in Italia. Nei primi anni in cui era in Italia è venuto a conoscenza di un evento del FAI in cui sono state aperte al pubblico alcune aree della stazione Termini di Roma, normalmente chiuse e inaccessibili. Si trattava del Fabbricato I e del bunker sottostante fatto costruire da Mussolini nel 1936, ossia una cabina di comando che duplica le apparecchiature e i dispositivi elettrici per il comando automatico degli scambi e dei segnali.

«Io ero molto incuriosito da questo evento perché ogni giorno passavo dalla stazione e non sapevo che sotto ci fosse quest’opera e ho chiesto perché era sempre chiuso e mi hanno detto che il FAI lo apre in alcune giornate, quindi abbiamo avuto l’opportunità di visitare questo luogo ed è stato bellissimo. C’è un’arte molto bella, io ho visto tutte le linee, il centro di comando e poi c’è un corridoio bellissimo, come una specie di museo. Ho chiesto ad altre persone — anche italiani — se erano mai state lì, ma nessuno mi ha detto che c’era stato».

Dopo questo primo incontro Mamadou ha partecipato al corso per mediatori artistico-culturali del FAI dove ha incontrato molti altri giovani provenienti da diverse parti del mondo.

«Mi è piaciuto tanto perché il corso era dentro un museo, il Museo Macro, in cui non ero mai entrato, per cui è stata un’altra opportunità per visitare. Inoltre c’erano tanti giovani del mondo: c’era chi veniva dall’Asia, chi dall’Africa, un’indiana, due sudamericani, c’era l’America e l’Europa e l’Africa, e anche dei giovani italiani e quindi io vedevo tutto questo mondo dentro questo museo».

L’esperienza del corso ha due valenze nel percorso di questo ragazzo. Anzitutto è un modo per conoscere un territorio nuovo, sconosciuto, dove si è arrivati da poco, il che per un migrante (e in particolare per un rifugiato) significa far fronte a quella sensazione di spaesamento che si sperimenta quando non si conoscono luoghi, persone e situazioni. Conoscere dei luoghi di cultura, peraltro poco noti anche agli autoctoni, vuol dire anche entrare a far parte di un contesto, sentirlo «proprio» e quindi creare un legame con esso, in poche parole significa sviluppare un senso di appartenenza. Diventare mediatori artistico-culturali e quindi narratori che illustrano un’opera museale o una piazza significa qualcosa di ulteriore, ossia costruire un legame simbolico: il senso di appartenenza non si sviluppa con un Paese «astratto», ma con dei luoghi concreti che si frequentano quotidianamente (per motivi di lavoro, perché ci si abita, ecc.) o in cui si vivono esperienze emotivamente significative.

Frequentare un museo dal di dentro, come protagonista attivo, è un’esperienza emotivamente significativa per una persona immigrata, lo pone in un’ottica diversa agli occhi della società, gli conferisce un ruolo socialmente apprezzato e un valore che spesso non si riconosce agli stranieri.

L’altra dimensione presente nelle parole dell’intervistato è quella dello scambio tra giovani diversi tra loro per provenienza e orizzonti culturali, da questo punto di vista il progetto «FAI ponte tra culture» apre spazi di prossimità tra gruppi etnici diversi. L’esperienza è interessante perché mostra in un’altra ottica il processo di ridefinizione della propria identità e dei confini con l’altro da sé; qui il rapporto non è tra una minoranza che si inserisce in una maggioranza, più o meno accogliente, ma tra diversi gruppi, e la vicinanza che attiva scambi culturali consente ai soggetti di arricchirsi, pur mantenendo le proprie specificità culturali. La partecipazione a un’associazione può agire da fattore comune, come una realtà di cui si condividono i valori e che costituisce il substrato dove i vari gruppi sperimentano un’occasione di conoscenza e integrazione.

Che tipo di attività di volontariato svolge

Mamadou partecipa alle Giornate FAI e ad altre attività promosse dalla Delegazione di Roma, illustrando le opere delle varie realtà museali aperte al pubblico. Parla un fluente italiano, nonostante la breve anzianità migratoria, oltre che francese e mandingo.

«Ho fatto il corso con loro e alla fine c’era questo evento, le Giornate FAI di Primavera. Ho scelto di provarci, era la prima esperienza per me, anche per parlare in pubblico, e poi ero qua da poco, non parlavo bene italiano, però ho detto: «Va bene, voglio provarci». Mi è piaciuta tanto questa esperienza, è stata una bella opportunità, mi hanno mandato le slide, io ho studiato e poi sono andato a Palazzo Firenze, vicino al Senato, abbiamo fatto un sopralluogo e ci hanno spiegato anche come comportarci, come gestire il tempo».

Il volontariato è spesso una palestra di sperimentazione e di sviluppo di competenze: parlare davanti a un pubblico colto significa mettersi alla prova, impegnarsi nell’apprendimento della lingua del Paese di arrivo, sviluppare abilità e conoscenze. Non solo, rivestire i panni del mediatore-narratore richiama un certo prestigio sociale, conferisce quindi all’individuo un riconoscimento sociale o anche solo una rappresentazione positiva di sé.

Interessante a tal proposito l’osservazione di Mamadou che spiega:

«Apprezzo molto la volontà di provare a fare delle cose, sono stati molto carini con noi, mi hanno dato un’opportunità e mi hanno fatto credere che potevo farcela».

I rapporti con i beneficiari e gli altri volontari

Il volontariato può essere un’esperienza gratificante per la persona, risponde al bisogno di essere accolti e accettati in un gruppo e, per gli immigrati, questo ha un particolare valore perché significa sentirsi parte di qualcosa, al di là della propria origine etnica. Mamadou racconta così la sua prima esperienza come volontario.

«Quando faccio il narratore parlo di solito in italiano, la gente apprezza molto il fatto che ci siano delle persone che parlano di arte. Anche se io non parlo molto bene italiano, le persone mi hanno fatto comunque dei complimenti, la gente che ho incontrato a Palazzo Firenze, dopo la narrazione, mi avvicinava e mi diceva: «Bravo, continua così, sei bravissimo, vedrai che farai tante cose». E altre volte mi chiedevano da dove vengo, da quanto sono in Italia, mi dicevano che parlo bene italiano… dopo un’ora mi sono sentito veramente a casa in mezzo a degli amici e alla fine ho passato tutta la giornata libero di esprimermi, è stata un’esperienza molto bella per me, che mi ricorderò sempre».

Come giudica la propria esperienza di volontariato

La storia di Mamadou è emblematica perché, più di altre, scompiglia l’idea dell’immigrato schiacciato sui suoi bisogni primari: un giovane maschio, africano, rifugiato, ospitato in un centro di accoglienza, che nutre ed esprime il proprio bisogno culturale in modo molto intenso.

«Io ad esempio facevo dei giri per la città e vedevo soltanto le cose, ma con il FAI vado a vedere e imparo la storia, in alcuni casi ho pure la possibilità di toccare con mano, di vedere queste opere per bene e non soltanto di passaggio come quando cammini e vedi le cose ma non ne sai la storia…. Gli amici mi dicono che è un perdere tempo, ma non è così perché impari qualcosa di nuovo, costruisci delle relazioni, conosci delle persone e avrai l’opportunità di spiegare alle persone quello che hai imparato e questo è molto bello. Se un giorno mi capita di tornare in Africa e qualcuno mi chiede ad esempio del Colosseo, non dico soltanto che ci sono stato, ma sono anche in grado di spiegare la storia del Colosseo, non è un turismo vuoto».

I musei per loro natura concorrono alla costruzione identitaria di una collettività e di un territorio. Poter sperimentare questa realtà come mediatori artistico-culturali risponde a una funzione conoscitiva, poiché si conosce qualcosa di più di quel luogo e della sua storia, ma al contempo incide anche sulla costruzione identitaria del singolo che intrattiene un rapporto con quella realtà museale.

Questo brano che abbiamo pubblicato è tratto da Volontari inattesi. L’impegno sociale delle persone di origine immigrata a cura di Maurizio Ambrosini e Deborah Erminio, edizioni Erickson 2020, pp. 181-185.

Il volume è una ricerca approfondita e focalizzata sul mondo non profit che recentemente ha visto aumentare il numero di volontari di origine immigrata, in connessione con il carattere sempre più strutturale del fenomeno migratorio in Italia, ed emerge che le persone immigrate non contribuiscono soltanto con il loro lavoro all’economia del Paese, ma esprimono anche un “inatteso” dinamismo sociale, impegnandosi gratuitamente attraverso il volontariato in servizi di pubblica utilità.

Mediante la presentazione di casi esemplari, interviste e una dettagliata analisi dei dati raccolti, il libro descrive alcune di queste iniziative tra cui il progetto «FAI ponte tra culture» cercando di metterne in luce le caratteristiche comuni e il valore aggiunto rappresentato dai volontari di origine straniera.

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